All’incrocio dei suoi 26 anni, Gaia, occhi grandi e ben aperti, ha i nervi a fior di pelle. Tra le strade cieche del suo cronotopo, bazzica con costanza i luoghi d’asfalto della giungla urbana, dove il bello si cela tra metrò, equivoci locali sottoscala, verdurai illuminati da luci al neon, lavasciuga birmani (tutti un bisbiglio), garage sbrecciati dove rifugiarsi a guardare scheletri di palazzi in costruzione, bidoni di colori primari, vecchie zingare alla questua; e poi, lì, ad un tratto, una misteriosa ragazza scesa da una Ambassador della Hindustan Motors. Crema, come il foulard di seta che le avvolge i capelli, come gli occhiali intrecciati di Tom Ford che le proteggono gli occhi verdi-nocciola.
Gaia Tempofosco ne annota il fascino sul suo taccuino, e le sorride ricambiata.
Il suo chic proviene dalla striscia d’asfalto, dal metallo pressofuso, dalle imbottiture fintopelle delle vetture d’un tempo; il suo glamour è fasto e miseria. Il trucco è esorcismo, zen e assoluto made in Japan, razionalizzazione e game. Transgender. Nella sua città crescono i ciliegi, gli otaku sono killers sorridenti, le ragazzine giocano ad essere bambole, le donne sono linee nere e argento. Discende le scale della 12 ed è come fosse a Volontaires, ad aspettare, da Marie d’Issy a Porte de la Chapelle. E poi a cambiare, sali, scendi, echi, calca e sferragliare di ferrorotaia percorsa a perdifiato nel tunnel scuro, sino alla prossima luce, seduta davanti ad un ragazzo dai capelli crespi – Antille - per inebriarsi, appena scappata fuori, e a pieni polmoni respirare lo sfavillìo di luci dei Grandi Magazzini, il roboante brillare delle Galeries Lafayette, sguardo-diario nei gioielli di frutta e libellula, scimmia e pomodoro, Dior.
Il suo chic proviene dalla striscia d’asfalto, dal metallo pressofuso, dalle imbottiture fintopelle delle vetture d’un tempo; il suo glamour è fasto e miseria. Il trucco è esorcismo, zen e assoluto made in Japan, razionalizzazione e game. Transgender. Nella sua città crescono i ciliegi, gli otaku sono killers sorridenti, le ragazzine giocano ad essere bambole, le donne sono linee nere e argento. Discende le scale della 12 ed è come fosse a Volontaires, ad aspettare, da Marie d’Issy a Porte de la Chapelle. E poi a cambiare, sali, scendi, echi, calca e sferragliare di ferrorotaia percorsa a perdifiato nel tunnel scuro, sino alla prossima luce, seduta davanti ad un ragazzo dai capelli crespi – Antille - per inebriarsi, appena scappata fuori, e a pieni polmoni respirare lo sfavillìo di luci dei Grandi Magazzini, il roboante brillare delle Galeries Lafayette, sguardo-diario nei gioielli di frutta e libellula, scimmia e pomodoro, Dior.
Ma la sua stanza è spoglia, la sua pagina è ordine vuoto, MU, ideogramma. La sua determinazione di sguardo è potente, lucida. Divorare con gli occhi la complessità, toccare il rayon, la ceramica molle, il legno di Difou e Angelim pedra, il Pero, e poi la plastica porosa, mangiare la gelatina di fagiolo rosso, bere il thè di San Pietroburgo. Si piega sotto il peso della bellezza che ama e che non può stringere a sè. Non sempre, almeno, non il vestitino Gaultier che vorrebbe rubare perchè costa 1400 euro. La commessa ha la voce dolce, Gaia annota ma non fa una piega, e lascia lì un pezzetto di carne. Ha delle foto nella sua stanza, al tredicesimo piano dell’anonimo compound 86, quartiere inglese. Sette foto. Le sostituisce, a rotazione. La prima è quella dello studio di Francis Bacon, lui in bella posa tra montagne di tubetti di colore vuoti, sedimentazioni di metallo e spirito, archeologia d’arte e vita. Sotto quella, due libri, uno rosa, uno bianco nero (colori dell’anima): di Ogawa Yoko, “L’anulare”, e “La nebbia a Milano” di Bruno Munari. Delle altre foto non si dice ancora, se non la prossima volta (ma Gaia non ci scommetterebbe, si stufa presto). Echi musicali dal ristorante marocchino di sotto.